Ultra-Dio

Composizione grafica con Cerchio finito dell'apparire.

L’uomo-animale di Darwin, l’ultra-uomo di Nietzsche, l’ultra-Dio di Severino

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Dice il miope darwiniano: “Il lupo siberiano è bianco perché si è adattato all’ambiente” … A ben vedere se la Siberia non avesse il lupo bianco, manco sarebbe la Siberia. Che il lupo si sia passivamente adattato all’ambiente, pare una interpretazione parziale della realtà, poiché il lupo stesso è parte integrante del suo ambiente; senza di esso neppure quell’ambiente, tale e quale, esisterebbe. La Siberia non sarebbe la Siberia se non avesse il lupo bianco. Una più attenta disanima del fenomeno vede che il lupo, più che adattarsi passivo a un ambiente precostituito, contribuisce a creare, attivamente, l’ambiente stesso, come uno dei suoi fattori caratteristici.

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A differenza di Darwin, per Nietzsche la vita non è un passivo adattarsi, è piuttosto un’attiva volontà di auto-potenziamento. Solo un auto-superamento creativo della vita, che coinvolga sinergicamente tutte le forme di vita, può giungere all’ultra-uomo, suo apice e sua anima.

E la vetta vertiginosa dell’ultra-Dio di Severino? 

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In genere si ritiene, ascoltando il darwinismo, che la coscienza sia un prodotto evolutivo e che l’uomo discenda dalla scimmia. Il punto è che in nessun animale, ad eccezione dell’uomo, si riscontra un qualche barlume di coscienza, un lontano sentore della facoltà d’intendere e di volere. Nessun animale è colto dall’impulso di volgere lo sguardo alle stelle, neppure si riscontra in essi il solo presagio di cosa possa mai voler dire “avere uno sguardo”. Non pare che la coscienza sia di derivazione animale, ma è ad essa che si allude quando si parla dell’uomo. Qual è la specificità dell’uomo, la sua peculiarità, se non la coscienza? L’uomo dunque – la coscienza – discende dalla scimmia? Appare chiaro, ponendoci la domanda in questi termini, lo stridore di una risposta troppo masticata, resa troppo superficiale dalla cieca fede darwiniana che la scienza moderna ha saputo incensare. 

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Se la coscienza non è un prodotto evolutivo, neppure l’uomo, in quanto trova la sua specificità nella coscienza, può essere ritenuto un prodotto evolutivo. Forse il mio corpo, l’organismo umano, discende dalla scimmia, ma io, quella specula di coscienza che rispecchia in me, che sono io, a me stesso non pare abbia avuto questa origine.

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Qual è dunque l’origine della mia coscienza? Il problema dell’origine è imprescindibile, qualunque sia la dottrina o la scienza che si adotti. Il darwinismo, la biologia, e la scienza moderna in generale, vede l’origine nel Big Bang, una vertiginosa regressione nel tempo. Ma la coscienza? Se la coscienza non s’innesta nel discorso evolutivo di stampo darwiniano, non potrà vedere la sua origine in una regressione temporale. Essa non è evolutiva, non si sviluppa nel tempo, non diviene. Essa è immediata, è fuori dal tempo, è eterna! “Essere umano”: registra il linguaggio. E l’essere non diviene, è immutabile, eterno. La coscienza non trova la sua origine nel tempo e di certo non può essere scaturita dal nulla. “Dal nulla, nulla è generato!” assioma fondamentale di Parmenide. Di nuovo si riscontra la Necessità che la coscienza sia sempre stata, sia eterna, eterna alla stregua di un qualunque eterno, eterna quanto Dio. 

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Dice: “In ogni cosa c’è sempre la prima volta!” C’è sempre la prima volta, la scaturigine, la nascita, in ogni cosa della natura (l’insieme di tutte le cose che nascono e che, in quanto nate, sono destinate alla morte), in ogni cosa, cioè, che si lasci cogliere dalla conoscenza, che sia contenuto della “mia coscienza”. Così com’è contradittoria l’idea di un tempo precedente ogni tempo, è pure contradittoria l’idea di un luogo esterno ad ogni luogo, quel luogo onnicomprensivo, orizzonte conoscitivo di tutto ciò che nasce e che muore, che è la “mia coscienza”. La “mia coscienza” (non la coscienza com’è intesa dalla teoria evoluzionistica) non può essere scaturita da “nessun luogo”, non può essere generata dal Nulla, dev’essere senza origine, sempre stata, pre-condizionale, trascendentale. Del resto non può esservi cosa alcuna, in verità, che sia scaturita dal Nulla. La natura, il regno delle cose che vengono e che vanno, è illusione, l’illusione del tempo e della mortalità, velo di Maya, presunzione di conoscenza, nota conseguenza dell’illecito di Adamo, il Peccato originale.

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A ciò si aggiunga che, mentre per la mia coscienza si riscontra la necessità della sua eternità, poiché non è evolutiva e per di più non può essere scaturita dal nulla, sul Dio cristiano e sui molteplici dei delle varie religioni, non se ne riscontra una uguale necessità. Ad esempio: chi crede più in Giove, in Marte o in Diana? Per secoli e secoli questi dei hanno fatto parlare di sé, hanno istruito Oracoli e ispirato Sacerdoti e Sibille, ma poi sono tramontati. Sono tramontati, hanno fatto il loro tempo; non erano dunque eterni, o, se lo erano, tutt’ora lo saranno, ma non più per l’adorazione della loro divinità. La loro divinità non era retta da nessuna reale necessità, da nessuna intramontabile Verità, ma dalla Grande creatività delle antiche genti, la titanica Fantasia dei nostri Progenitori, i primi Creatori della Civiltà dell’Occidente. 

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È per la forza della Necessità,

che si vede eterna, la “mia coscienza”,

non per credenza o per fantasia;

e la fermezza del necessario,

“che non può non essere”,

l’atemporale assoluta Verità,

sta oltre il transeunte secerno

della credenza e della fantasia.

Dunque non a un dio, essa va comparata,

la “mia coscienza”, ma a un ultra-Dio.

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Marco Rossi della Mirandola (17/03/22).

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