Memento Mori

“Ex nihilo nihil fit” Parmenide: dal nulla, nulla è generato.

La logica vede l’impossibilità che l’essere sia non-essere, che l’essere non sia, che alcunché dal nulla sia generato e nel nulla degeneri.

Il comune senso dell’esperienza, tuttavia, non si lascia zittire dall’arida operazione logica, non smette di chiedersi come mai sia possibile che il corpo, una volta esalato l’ultimo respiro, non inizi a sfaldarsi, via via, progressivamente, scomporsi nei suoi elementi costitutivi, fino a dissolversi completamente nel più totale annientamento.

Per giungere alla soluzione di un siffatto enigma, o almeno ammorbidirlo e renderlo meno indigeribile, non solo è necessaria una reinterpretazione della naturale evenienza della morte, ma anche una inusitata visione e una consapevolezza nuova di ciò che chiamiamo corpo.

Una cosa è l’idea comune che abbiamo dei corpi (adottata anche dalla scienza): l’interpretazione materialistica dei dati della nostra conoscenza, specie i dati di quell’ambito della conoscenza che riguarda l’esperienza diretta che ci facciamo del nostro corpo particolare, quei dati percettivi (visivi, tattili, ecc.) a tal punto evidenti che, con tutta naturalezza, chiamiamo “nostro corpo”. Altra cosa è una più chiara consapevolezza circa la natura e la consistenza dei contenuti della conoscenza in generale.

Se osservo la mia mano, la guardo con gli occhi, tuttavia so bene che la vedo solo grazie al pensiero. Fa dunque parte della mia mente, la visione che ho della mano, essa alberga nel mio pensiero: un “oggetto di pensiero”. Tuttavia, con la massima nitidezza e la più chiara distinzione, la mia mano – pur sapendo che è oggetto interno al pensiero – la continuo a vedere, unita al mio braccio, collocata all’esterno dei confini del mio pensiero…

Il pensiero dunque opererebbe, sistematicamente, qualcosa di simile a ciò che, nell’ambito ristretto della psicologia, prende il nome: “proiezione”.

Il mio pensiero… davvero un impareggiabile mago prestigiatore, quale illusionista istrione potrà mai pareggiarlo…

“La coscienza è illusione” Buddha.

Nulla conosciamo oltre a ciò che conosciamo. Anche tutto ciò che chiamo corpo, compreso il “mio corpo”, altro non può essere che un mio conosciuto, un dato della conoscenza collocato all’interno dei confini della stessa. Non mi è possibile conoscere ciò che si colloca all’esterno della mia conoscenza, sarebbe come saltare oltre la propria ombra. Ciò che si trova all’esterno della mia conoscenza, non lo conosco, mi è ignoto: un impenetrabile Mistero.

Non solo, questo dato della conoscenza, dovrà essere della stessa sostanza di tutti gli altri dati della conoscenza: la sostanza del pensiero, la sostanza della mente: certo non una sostanza fisica (che è essa stessa un conosciuto, un dato della conoscenza), piuttosto un alcunché di metafisico.

Ecco che, se prendiamo le distanze dall’interpretazione materialistica dei dati del corpo e cogliamo la loro reale consistenza di oggetti di pensiero, l’idea della immortalità del corpo ci risulterà facilitata, più accessibile.

Se tutto quanto, negli anfratti della nostra conoscenza, raccogliamo sotto l’insegna di “mio corpo”, venisse visto come qualcosa di incorporeo, metafisico, sarebbe più agevole accettare l’idea dell’eternità di quell’insegna, una volta fosse ripulita dal pregiudizio materialistico della corporeità. In effetti, l’idea di un corpo incorporeo, che si volesse eterno, non è più difficoltosa dell’idea – più che collaudata – di un’anima incorporea eterna.

La difficoltà non pare stia nell’accettare l’idea dell’eternità di alcunché, ma nel superare la visione materialistica di ciò che ci appare alla mente, specie se si tratta dell’apparire di quegli essenti che interpretiamo come corpi esterni. La difficoltà sta nell’emanciparci dall’interpretazione nichilistico-materialistica di quei dati della nostra conoscenza che raccogliamo sotto l’insegna di “mondo fisico” e che chiamiamo “mondo fisico”: l’ambito dello spazio-tempo, in cui vediamo collocati tutti i corpi, compreso il nostro.

Non è impossibile, trovandosi a Roma, giungere a Ostia procedendo verso Oriente, ma se si punta ad Occidente è più agevole…

Salta agli occhi quanto, il concetto fenomenologico di “apparire”, si sbarazzi di tutta la fisicità di ciò che la cultura nichilistico-materialistica chiama “mondo fisico”, e rivela l’inconsistenza di questa visione, la sua realtà di credenza infondata.

Solo avendo presente questa dissipazione della fisicità dei dati di conoscenza del corpo (alla stregua di qualunque dato della conoscenza), solo avendo presente la visione della loro realtà prettamente mentale, visione offerta dal concetto di “apparire”, si fa più agevole al pensiero l’accettazione della, misteriosa inesperibile, eternità dei corpi.

Ecco che ci risulterà meno ostica l’idea che, ciò che chiamiamo corpo, non è un ché di separato da ciò che chiamiamo anima, di materiale rispetto allo spirituale dell’anima, di esterno rispetto all’interiorità dell’anima, di mortale rispetto all’immortalità dell’anima. In effetti, a ben vedere, la sostanza del corpo è quella stessa dell’anima (oggetto di pensiero, l’uno, oggetto di pensiero l’altra), il corpo è una parte integrante dell’anima; per così dire: il corpo è una delle modalità di manifestazione dell’anima, il suo volto esperibile, visibile, condivisibile.

Marco Rossi della Mirandola (15/06/25).

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