L’essente “durata” o dell’illusione del tempo

Coposizione grafica con clessidra, simbolo del tempo.

La destinazione dell’essente al suo scomparire (il suo presunto diventare un nulla) non appare, “Lo scomparire della legna, al sopraggiungere della cenere, non appare” Severino. Se dunque può dirsi che “lo scomparire della legna non appare”, manco potrà dirsi che “il comparire della cenere appare”, non appare la condizione della “cenere” precedente al suo apparire (cioè che fosse un nulla). Se “La volta del cielo non può dirmi che ne sarà del sole dopo il suo tramonto” Severino, in ugual modo manco potrà dirmi che ne era del “sole” prima del suo sorgere. Il “prima” e il “dopo” dell’apparire del “sole” non appaiono, per cui non può dirsi che il tempo (il tempo comunemente inteso come passato, presente e futuro, ovvero prima, adesso e dopo) sia la vera modalità del manifestarsi dell’eterno; può dirsi solo che il tempo è l’apparente modalità dell’apparire dell’eterno. Il tempo che appare, il tempo empirico, è solo illusione, fede: un essente, l’eterno essente della durata temporale.

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È innegabile che anche le parvenze del tempo siano essenti, enti che sorgono e tramontano all’orizzonte dell’apparire, se essenti non fossero manco potrebbero apparire. Se dico che sono passate due ore dall’ultimo pranzo, dico qualcosa che m’appare, un essente dunque. Il dato di un intervallo temporale è un alcunché che appare, alla stregua di qualunque altro ente. Anch’esso sorge come un astro all’orizzonte del mio sguardo. Mi è possibile infatti raffrontare durate temporali diverse, alla stregua di qualsivoglia oggetti diversi: m’appare infatti che la durata di un minuto è assai diversa dalla durata di un’ora ovvero dalla durata di un secolo.

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Tutto ciò che m’appare è ente, anche tutto ciò che riguarda il tempo, un essente fra gli altri essenti. Ma il susseguirsi degli essenti, di tutti gli essenti, compresi quelli che chiamo “dati temporali”, non va confuso con quel susseguirsi che chiamo tempo, tempo empirico.

Infatti, si tratta d’un “susseguirsi” (quello degli essenti, che compaiono e scompaiono) che non appare (non appare fenomenologicamente nel cerchio finito dell’apparire), se apparisse sarebbe essente e, di nuovo, non sarebbe il susseguirsi degli essenti, ma un essente fra gli altri essenti.

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Questo particolare “susseguirsi”, che di necessità non appare fenomenologicamente nel cerchio finito dell’apparire, è il “tempo” reale (un “tempo” atemporale…), non quello empirico-cronologico, che è essente, che appare nella forma della durata. Questo “tempo”, che non mi appare, appartiene alla “Struttura originaria della verità dell’essere” (fondamentale concezione di Emanuele Severino), neppure può definirsi tempo, infatti con tempo intendo un alcunché che mi appare. Tuttavia di esso appare, logicamente, la necessità di essere ente (di non essere un ni-ente) e, in quanto tale, manifestarsi nel cerchio infinito dell’apparire. Così pure appare, logicamente, la necessità del cerchio infinito dell’apparire.

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L’eterna modalità della molteplicità degli essenti, è di “sorgere e tramontare dall’orizzonte dell’apparire finito”. Anche quegli essenti che chiamo durata temporale, tempo empirico-cronologico, non sfuggono a questa eterna modalità dell’eterno. Il mortale, il divenire inteso come tempo empirico-cronologico, trova nell’immortale, nell’eterno, la sua precondizione, il suo trascendentale. 

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Marco Rossi della Mirandola (28/03/22).

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Rielaborazione del Post ‘Tempo’, presente sulla App “Marco Rossi della Mirandola”.

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